domenica 13 febbraio 2011

L'Ottimista e il Pessimista

DI ENRICO GALAVOTTI

ottimismo

Il difficile, in questa società, è conservare l'ottimismo di credere possibile una reale alternativa al sistema, pur nella piena consapevolezza della grande corruzione del potere politico-istituzionale. Tale corruzione infatti fa scattare, in molte persone, dei meccanismi per i quali, in un modo o nell'altro, si tende a giustificare il qualunquismo come prassi e il pessimismo come filosofia nei confronti dell'uso del potere in particolare, e della politica in generale. Nel migliore dei casi si assiste a una reazione istintiva, individualistica o estremista.

Il pessimista, che non crede in una modifica sostanziale della realtà, in direzione della qualità della vita, è fondamentalmente un individualista, cioè una persona che vorrebbe cambiare o veder cambiare le cose ma che, nel contempo, ritiene di non avere le forze sufficienti per poterlo fare, né che altri le abbiano. Il pessimista ha fiducia di poter sopravvivere dignitosamente in questo sistema di cose, di cui però scorge, in maniera superficiale, la decadenza, la volgarità. Egli cioè è convinto di poter vincere da solo la sua lotta contro i meccanismi duramente selettivi della società borghese. Il pessimista non crede nella possibilità di un cambiamento perché non crede negli altri e di conseguenza neppure in se stesso e, quel che è peggio, non vuole neppure che gli altri credano in loro stessi. Egli è conservatore per scelta e fa del proprio idealismo o del proprio perfezionismo un alibi per non impegnarsi a livello politico o sociale, o comunque per non impegnarsi a favore della transizione. Il pessimista, se cinico, s'impegna moltissimo sul piano economico, per fare affari; se invece è un moralista o un intellettuale, s'impegna nella dialettica sofistica, nei ragionamenti filosofici, nelle disquisizioni che portano a un vicolo cieco o a giustificare le proprie posizioni, salvo poi, nel peggiore dei casi, lasciarsi andare in una vita dissipata, inconcludente e senza significato. Egli -se onesto- sarebbe anche disposto ad impegnarsi per la transizione sul terreno politico e sociale, ma lo farebbe solo a condizione di poter ottenere tutto e subito. Ben sapendo quanto ciò sia impossibile, ne deduce che l'impegno è inutile, è illusorio. E così la sua tendenza, anche senza volerlo, è sempre quella di giustificare il presente contro il futuro. Siccome però avverte o conosce, in qualche modo, le contraddizioni del presente, tende anche a idealizzare un passato che in realtà non è mai esistito, considerandolo come una sorta di "paradiso perduto". Il suo affronto della realtà è astratto e intellettualistico, da persona isolata, che si concepisce in maniera individualistica, anche se vive in una trama di rapporti sociali. Il suo problema maggiore è che non ha fiducia che le masse possano rendersi consapevoli dei loro bisogni e lottare in direzione del socialismo. Per lui, ad es., il crollo del socialismo di stato va visto come una giustificazione del capitalismo; l'ottimista invece vi deve vedere un progresso verso il socialismo democratico e autogestito. L'ottimista che s'impegna in modo responsabile non condanna la politica in sé, né il potere e tanto meno i singoli rappresentanti dell'uno e dell'altra. Condanna però il sistema che produce una certa politica e un certo uso del potere.

Una lotta politica efficace, oggi, deve saper mettere in discussione tutto. Lo scontro politico diventerà inevitabile se il sistema di potere cercherà d'impedire con l'uso della forza che la consapevolezza della generale corruzione porti a un rivolgimento politico-istituzionale. Molto, ovviamente, dipenderà dall'effettiva consistenza e organizzazione dell'opposizione. Il paradosso comunque resta: gli strumenti coercitivi adottati dal governo possono anche essere usati contro le intenzioni dello stesso governo, cioè per accelerare il momento dell'alternativa.

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